Recensione: “Il mio nome è Mostro” di Katie Hale.

Trama

In un mondo devastato e vuoto, in cui l’umanità è stata spazzata via dalla Guerra e dall’Epidemia, una donna, sola, attraversa quella che un tempo fu la Gran Bretagna. Si è salvata restando chiusa nel Deposito dei Semi di Svalbard, tra i ghiacci del Nord. Poi, a bordo di una barca, ha affidato la sua vita al mare ed è approdata in Scozia. Ora si dirige a sud, verso quella che un tempo è stata la sua casa, convinta che tutti siano morti o rintanati in uno dei Centri di sicurezza ancora integri. Lei cammina, ricorda e sopravvive. Perché resistere quando non c’è più nessuno? In questo suo pellegrinaggio in cui la sopravvivenza fine a se stessa sembra l’unico obiettivo, incontra una ragazzina senza memoria e senza parola. La chiamerà Mostro, come suo padre faceva affettuosamente con lei. E proseguono insieme il cammino. In un’atmosfera sospesa e desolata, con uno stile essenziale e poetico, Katie Hale racconta due donne perse che portano avanti la vita, gettando così le basi per un nuovo inizio.

RECENSIONE

Un mondo di devastazione è quello che Mostro vede con i suoi occhi dopo essere uscita dal Deposito dei Semi. Con la consapevolezza di essere, forse, l’unica superstite di un disastro epidemiologico ha un unico obiettivo: tornare a casa e rendersi conto di persona che adesso è rimasta davvero sola al mondo.
All’inizio è tutto un susseguirsi di marcia e perlustrazione, ma intanto ci introduce nel suo io più profondo, ripercorrendo i conflitti di una vita e ricordi non proprio felici. Fino a quando a prendere le redini della narrazione non sarà una ragazzina che ha dimenticato ogni cosa – perfino il linguaggio – e alla quale la donna darà gli strumenti per sopravvivere e le cederà anche il suo nome, nella speranza che, al momento della sua dipartita, qualcosa di lei rimarrà ancora. La “nuova” Mostro è un’adolescente che con spontaneità e grande coraggio, sperimenterà in prima persona il piacere della scoperta. Come una tabula rasa non ha pregiudizi e l’emozione del conoscere le insidie e le meraviglie della natura sarà crescente in lei, provocandole dei moti di ribellione.
Un’ambientazione catastrofista fa da contorno alla storia di due donne e del loro tortuoso cammino. Un cammino tanto fisico quanto attraverso le proprie insicurezze, dove a emergere sarà tutta la loro resilienza. È quando ci troviamo di fronte alla Fine che risaliamo la china e tiriamo fuori il meglio di noi stessi.
Sono le loro voci che, con estrema naturalezza, narrano gli eventi in prima persona e ci raccontano di come, a causa della malattia e della guerra, il genere umano sia stato annientato lasciandole in balia di questo mondo in rovina.


Quella che ci troviamo davanti è una distopia di stampo femen, ma con rimandi alla speculative fiction post-apocalittica.
Di spiegazioni, Katie Hale, ne concede ben poche, preferisce distogliere la nostra attenzione dai come e perché si sia arrivati a questa catastrofe, focalizzandola su quel processo di “rinascita” che dapprima ha inizio quasi per inerzia, ma acquisisce valore pagina dopo pagina.
L’ambientazione periurbana post-apocalittica è ridimensionata per dare il giusto spessore, ma in maniera graduale, a temi come quello dell’accettazione della propria femminilità, del prendere consapevolezza dell’istinto materno che giace sopito in ogni donna, viene anche svecchiato il canonico concetto di “famiglia”.
Un’atmosfera rarefatta di contro a uno stile “pacato” e severo. La penna dell’autrice è intrisa di “misuratezza” e pensieri sobri, anche il silenzio e la staticità acquisiscono un grande rilievo ai fini della narrazione. Non si tratta di un testo che spicca per ritmi concitati o colpi di scena dagli effetti speciali, Hale punta tutto sull’introspezione degli attori principali e sul loro percorso di “rinnovamento”.
La struttura fatta di brevi capitoli rende agevole la lettura, riusciamo a seguirne lo sviluppo con lucidità ed empatia. Due personaggi concreti, ognuno con la propria personalità, che – anche nei momenti di attrito – faranno fronte comune per fronteggiare la solitudine e restare in vita.
Mostro, protagonista della prima parte del libro, si rapporta a questa ignota realtà con una freddezza innaturale, dai suoi pensieri e azioni capiamo che nutre una radicata avversione verso “gli altri”; elemento che ci fa propendere verso l’ipotesi che sia un’antieroina. Vaga meccanicamente tra le macerie, cerca un rifugio, acqua e cibo, sopravvive ma la mente corre al passato e, intanto, persiste nel suo atteggiamento da nomade. Che quel pellegrinaggio sia una scappatoia per tenersi occupata e fuggire da una realtà che non riesce ancora ad accettare?
Tuttavia quando incappa in questa ragazzina, la “nuova” Mostro, la sua corazza d’indifferenza s’incrina e inizia a provare davvero dell’affetto, pur non perdendo mai del tutto quel cinismo che la contraddistingue.
Destreggiandoci in mezzo al parapiglia di pensieri percepiamo che sono due figure femminili forti che, pur vivendo una situazione di disagio, non suscitano compassione né risultano drammatiche eppure riescono a fare breccia nel cuore del lettore.
Un gioco di rimandi profuso di malinconia quel presente fatto di desolazione e poche speranze, sembra specchio di questi ultimi mesi di incertezza dovuti alla diffusione del Covid19.
Katie Hale con questo suo romanzo d’esordio ci regala una storia di rinascita dove non tutto è perduto e la speranza si affaccia come un fuoco che cova sotto la cenere.

Elisa R

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