Recensione: “Paravion” di Hafid Bouazza (+ Intervista all’autore).

Trama:

“Par avion” è una semplice dicitura che indica la posta aerea, ma gli abitanti del villaggio di Morea, nel Nord Africa, sono convinti che si tratti del nome della città da dove scrivono i compaesani espatriati. Paravion: la città dei grandi parchi, delle fanciulle emancipate, la terra dei sogni alla cui malia nessuno sa resistere. Così un giorno gli uomini del villaggio decidono di raggiungerla. Ingravidano le loro mogli, poi su dei logori tappeti prendono il volo verso quel luogo idilliaco. E mentre nella valle di Abqar l’unico maschio della nuova stirpe, Baba Baluk, viene iniziato alla vita e al sesso da una comunità interamente femminile, a Paravion gli uomini devono fare i conti con la disillusione verso un mondo a cui sentono di non appartenere. Scritto come una fiaba araba, Paravion è un romanzo immaginifico e dalla lingua raffinata e suadente, pervaso di irresistibile ironia. Bouazza lancia strali a una mentalità misogina e retrograda, ma anche alle contraddizioni della modernità, affrontando il problema attualissimo dell’integrazione in un Paese straniero e raccontando il dramma intimo dell’alienazione e della nostalgia.

RECENSIONE:

Paravion chiamava e ammiccava, e loro prestavano ascolto. Eccoci! Arriviamo!

Come tanti prima di lui, arriva un giorno per Baba Baluk e gli altri uomini del villaggio di lasciarsi alle spalle l’unica vita che abbiano mai conosciuto – abbandonando mogli e figli – e partire alla volta di Paravion; lontano dalle proprie radici, per cercare un futuro migliore per loro e per le proprie famiglie. Giunti lì, però la realtà sarà ben diversa da quella che si aspettavano di trovare e vedranno crollare come un castello di carte quel già fragile muro di certezze.

Le donne guardavano con bramosia il francobollo blu e bianco con sopra la scritta paravion. In quei due colori era racchiuso così tanto: l’essenza della nuova terra, le impronte digitali dei loro mariti, pensavano.

Leggendo la sinossi potrebbe sembrarvi un libro distante dalle finalità previste dal nostro blog. Cosa c’entra con la distopia? Ed è qui che vi sbagliate. Una delle categorie che abbiamo iniziato a curare con più attenzione è proprio la “distopia sociale”. Vi appartengono quei romanzi dalle tematiche profondamente legate ai giorni nostri dove i concetti di libertà, emarginazione, risvolti politici e molto altro ancora, ci toccano da vicino ma discostandosi dall’elemento sci-fi.

Entrando nello specifico, “Paravion” appartiene al filone della letteratura di migrazione, ma la sua peculiarità sta nell’intelaiatura stilistica che ci presenta una vera e propria narrazione per immagini.

L’orizzonte aveva un colletto bianco. Poi gradualmente la luce cominciò a strabordare. Un mantello di luce dorata si allargò sulla cresta, mentre il sole cornuto saliva pian piano. L’alba invase la terra e gli uccelli cominciarono la loro matinée in quel mattino verde dorato.

Hafid Bouazza imbastisce il resoconto di alcune vite nel tentativo di emanciparsi. Un bilancio esistenziale imperniato su una sorta di dimensione fiabesca attraverso il quale comporre un affresco di due paesi diametralmente opposti, ma accumunati da una sottile ambiguità.
L’autore sceglie come protagonisti del suo romanzo un pugno di uomini e donne con dei tratti distintivi ben marcati. Degli outsider che scopriranno l’ostilità di un mondo che avevano idealizzato e che, invece, deluderà in parte le loro aspettative e, nel quale, incontreranno difficoltà a integrarsi.
A una lettura superficiale lo stile di Bouazza potrebbe risultare dispersivo, perché va a intrecciare più storie senza farti avvertire il cambio di prospettiva. Tuttavia, il punto di forza è decisamente la narrazione intensa e sensoriale, dal sapore contemporaneo – carico di simbolismi – ma con una punta di realismo magico.
La brutalità e quella aria licenziosa fanno da contraltare ad un’atmosfera suggestiva, trasportando il lettore all’interno di un disperato e disparato cammino attraverso paesaggi mutevoli.
Un’epoca instabile dove Paravion sta a rappresentare un locus amoenus, una città immaginifica che sembra avere diversi punti di contatto con la cosmopolita e “peccaminosa” Amsterdam, mentre, la cornice del villaggio marocchino dà un azzeccato tocco esotico, riconducibile talvolta ai racconti di Shahrazād‎, ma con un’asprezza che ci riporta più volte con i piedi per terra.
Un romanzo che, servendosi di tematiche e personaggi talvolta controversi, mette alla prova chi legge; ci si ritroverà poi a valutare e comprendere alcune delle dinamiche con cui veniamo a contatto giorno dopo giorno. Si parla del miraggio dell’emigrazione, dell’analfabetismo e della concezione antiprogressista che alcuni uomini nutrono nei confronti delle donne.
Uno stile asciutto, con precise pennellate che virano verso la prosa poetica, fa di Paravion una saga familiare atipica che esplora la crisi di un’intera Nazione portando alla luce le zone oscure di una società multiculturale, ma che ha ancora molto da carpire sul tema dell’integrazione sociale.
Un’opera di fantasia, certo, ma anche un inno alla dignità e all’uguaglianza.

Elisa R

Grazie alla collaborazione con la casa editrice Carbonio Editore, mi è stata data la possibilità di porre alcune domande all’autore. Le trovate qui di seguito. Buona lettura!

Hafid Bouazza è nato nel 1970 nella cittadina di Oujda, nel nord-est del Marocco. Nel 1977 è emigrato con la famiglia in Olanda, dove ha studiato Lingua e letteratura araba all’Università di Amsterdam. Oltre alla raccolta di racconti I piedi di Abdullah (suo esordio letterario nel 1996), ha pubblicato diversi romanzi che gli sono valsi prestigiosi riconoscimenti letterari in Olanda e Belgio. È anche traduttore di poesia araba e di alcuni drammi di Shakespeare. Bouazza è uno dei rappresentanti più apprezzati da lettori e critica della cosiddetta letteratura olandese di migrazione.

Ciao! Grazie per aver accettato di sottoporti a questa breve intervista. Prima domanda, così da poter rompere il ghiaccio, qual è stato l’input che ti ha spinto a scrivere un romanzo così peculiare come lo è Paravion?

È molto difficile da spiegare, non è stata solo una semplice idea. La sfida letteraria era scrivere romanzo pastorale, un poema bucolico ambientato nell’area arida di un Marocco immaginario; trapiantare “L’età dell’oro”, con la sua mitologia greco-romana, in un villaggio, un borgo per essere precisi, ispirato al luogo in cui nacque mio padre, Temsamane, nel nord del Marocco. Volevo mostrare la patina e la ruggine dietro quell’oro.

Baba Baluk: un nome per narrare di tre generazioni (anche se uno di essi compare solo all’inizio). È stato arduo gestire una strategia narrativa del genere?

Il problema principale che avevo era una questione di prospettiva. Un “narratore onnisciente” non andava bene. Così, quando ho deciso di fare della madre, Mamurra, la narratrice principale, il libro ha trovato la sua voce. Se anche mostrasse i segni di una narrazione onnisciente, non sarebbe un problema, poiché racconta la storia da un’altra prospettiva.

In Paravion, Oriente e Occidente si mescolano; indice di quanto l’integrazione – adesso – abbia fatto passi da gigante o fiducia verso un mondo che cambia?

No. Non è affatto un indice dei grandi passi compiuti dall’integrazione in Occidente (cosa che non ha fatto, c’è più segregazione che integrazione, davvero, è una cosa molto triste). Il mondo è decisamente cambiato e continuerà a cambiare, ma non mi ispira alcuna fiducia che questo sarà per il bene (che migliorerà). Il mix culturale nel romanzo è un inno all’immaginazione (letteraria) illimitata.

Trovo che il tuo romanzo, per certi versi, abbracci il genere del “realismo magico”: tappeti volanti, civette che contengono le anime dei morti e altro ancora. È stata una scelta voluta?

Non ho scelto deliberatamente il “realismo magico” – non è un termine che userei. Il lancio di qualche cliché esotismo in faccia al lettore è stata una scelta deliberata, specialmente i tappeti volanti, che, sebbene siano associati a Le mille e una notte, non si trovano nella raccolta originale dei racconti. I teschi che si trasformano in gufi non sono una mia invenzione. (La somiglianza tra un teschio e alcuni gufi spiega facilmente l’origine di questo bellissimo concetto.) Faceva parte delle credenze pre-islamiche degli arabi e, in un libro pieno di metamorfosi, non ho potuto resistere a inserirle. Ho scelto i gufi bianchi, perché avevo bisogno delle loro piume come motivo accanto ai fiori di mandorlo bianchi e ai fiocchi di neve.

Leggo che sei nato in una cittadina del Marocco ma che, ancora in giovane età, ti sei trasferito in Olanda con la tua famiglia. Nel libro, affronti temi molto delicati come la misoginia, l’emarginazione nei confronti del diverso e, appunto, il fenomeno dell’emigrazione. Quanto pensi abbia influenzato il tuo stile di scrittura l’essere “alloctono”?

Lo penso molto meno di quanto facciano molti lettori e critici. La mia emigrazione è stata importante, ma non è la parte determinante di me come scrittore. Ho trascorso i miei anni formativi nei Paesi Bassi. E credo che la letteratura inizi con la scoperta della letteratura e non con un’azione fisica.

Hai altri progetti in cantiere?

Sto lavorando a un romanzo e traduco in olandese Le Spleen de Paris di Charles Baudelaire, il suo 200esimo anniversario è nell’aprile 2021. L’artista Marlene Dumas fornisce dipinti per questa traduzione.

Grazie per il tuo tempo e per il tuo meraviglioso romanzo! Spero che avremo l’opportunità di incontraci, nel frattempo continuerò a leggere i tuoi lavori.

Il piacere è stato mio.

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