TRAMA:
Quando Pierre Javelin, piazzista di cosmetici e lozioni di bellezza, anziché firmare col suo nome, scarabocchia segni indecifrabili sui documenti per ottenere un aumento di paga, si rende conto che quella semplice sbadataggine – ma si può davvero sbagliare la propria firma senza volerlo? – è invece l’espressione di un sentimento di ribellione segretamente covato, quasi ignoto persino a lui stesso, contro gli inutili obblighi di un’esistenza anonima.
Rientrato a casa alla sera, scopre che la chiave del suo portone non gira nella toppa. Gli apre una coppia di sconosciuti, che sostengono di vivere lì da anni. Sua moglie è scomparsa assieme alla casa. Cosa è successo? È forse impazzito? No, la realtà è davvero quella, e l’errore non è nient’altro che lui, piccola rotella impazzita dell’ingranaggio inarrestabile e immodificabile che è la Città: la Città dei casermoni di cemento tanto alti da non lasciar vedere il cielo, la Città che teme le ribellioni dell’anima e inghiotte gli individui privandoli di coscienza e identità.
E comincia così per Pierre Javelin una discesa all’inferno fatta di incontri bizzarri, burocrazia assurda, archivi irraggiungibili, strambi istituti dove ci si fa sconsigliare dalle scelte, uffici amministrativi dove si sta in fila come barattoli su un nastro di scorrimento; un viaggio irrazionale e distopico (il romanzo, del 1953, è stato più volte paragonato a 1984 di Orwell e a Il processo di Kafka) dove ogni passo in avanti per riallacciare i fili della propria vita è respinto dalla forza oscura della Città che tenta con ogni mezzo di ricacciare la testa dei suoi cittadini nell’inchiostro nero dell’impersonalità.
RECENSIONE:
Pierre Javelin è un ordinario venditore di cosmetici porta a porta; il suo calvario ha inizio dopo aver apposto su alcuni documenti – per una svista – una firma diversa dal solito e da lì la sua vita prenderà una piega del tutto imprevista, a cominciare da quando rientrando nel suo appartamento lo trova abitato da una coppia di sconosciuti, sua moglie è svanita nel nulla e per la Città lui non esiste.
“La città senza cielo“, edito Cliquot e su traduzione di Elisabetta Garieri, è stato inserito all’interno della collana “I classici dimenticati” e come tale va trattato, un pezzo di letteratura che ha suggellato un altro tassello nella definizione del genere che oggi conosciamo come distopia.
Con la macchinosità di un giallo da spionaggio Malaquais delinea uno scenario distopico dove uscire anche solo per sbaglio dai canoni imposti dalla norma cittadina viene severamente punito con la perdita di sé stessi in quanto identità.
L’alienazione è il perno principale su cui ruota l’intero romanzo, ma vengono sviscerati anche altri temi di una certa complessità come: la ripetitività del lavoro oppure il senso di inadeguatezza in una società che ostacola e inibisce la difformità rifiutandola categoricamente e punendola.
La città è un organo pulsante, una macchina burocratica complessa che s’impone sull’inerme protagonista. Pierre viene sì travolto dagli eventi – quasi inizia a dubitare della sua stessa sanità mentale – ma non accetterà mai passivamente il suo destino.
Strato dopo strato assistiamo al denudamento metaforico di Pierre; la Città con spietata freddezza e crudeltà gli strappa via tutto: la sua quotidianità, il suo posto nella società, l’amore della sua vita e altro ancora.
La Città sembra acquisire fattezze corporee, viene descritta come un essere senziente e colpisce questa dualità: da un lato i personaggi secondari appaiono quasi astratti e grotteschi, mentre la Città è reale e si manifesta con prepotenza.
Non c’è dato conoscere a menadito la sua topografia; sappiamo che è composta da un dedalo di alti grattacieli talmente fitti da oscurare il cielo, un persistente grigiore la avvolge e il controllo sui cittadini viene esercitato tramite dei telefoni tappezzati ovunque che fungono da vere e proprie spie (anche se si tenta di sabotarli, presto verrebbero sostituiti da uno più resistente).
Sospesa per il cuore a un filo di rame, la Città si confessava in un oceano di brusii.
Sarò sincera all’inizio ero stata quasi tentata di abbandonare la lettura, troppo carico di aforismi e massime che hanno appesantito lo svilupparsi della storia e poca poca azione e distopia nel senso stretto del termine mi stavano spingendo a cedere le armi, ma quando si è accesa la “scintilla” sono stata rapita dalla paradossale vicenda del signor Javelin.
Nella sinossi vengono riportate due analogie davvero monumentali, “1984” di George Orwell e “Il processo” di Franz Kafka, con il primo condivide un sistema politico di stampo totalitario dove il potere è insito nelle mani della burocrazia, controllo e propaganda non mancano e il clima che si respira è a dir poco asfittico. L’individualità viene soppressa a vantaggio dell’uniformità. Sul secondo esempio ahimè non posso confermare o smentire perché si tratta di una lettura che non ho ancora avuto modo di affrontare, tuttavia, del grande Kafka ho letto “La metamorfosi” e i due romanzi hanno in comune uno stile di scrittura tanto asciutto quanto chirurgico, ma anche il tropo di un uomo tagliato fuori da tutto e il dispiegarsi inesorabile di una tragedia. In più mi sento di aggiungere un terzo termine di paragone ossia “L’idiota” di Fedor Dostoevskij i due protagonisti condividono una grande sensibilità d’animo e il desiderio di essere parte integrante di quanto li circonda ma senza rinunciare al proprio io.
Una lettura vertiginosa che dall’alto della rassicurante routine della città ti scaraventa in quello che potremmo definire un vero e proprio dimenticatoio dove si agitano opposti sentimenti.
Girata l’ultima pagina fa capolino la sensazione di aver assistito a un esperimento: controllato a vista un topolino da laboratorio disorientato è costretto a girare in tondo intrappolato in un labirinto dal quale, forse, non troverà mai una via d’uscita.
Elisa R