Recensione: Terrarium di G. Manacorda

Ci estingueremo con un semplice ritorno allo stato bestiale. Così saremo tutti uguali.

In un mondo invaso da rettili mutanti, gli esseri umani sopravvivono aspettando la fine. Nella disperazione e nel combattimento, un attore fallito si riappropria della sua esistenza scrivendo alla madre che non c’è più. I ricordi, le paure e le frustrazioni del protagonista rivivono in quelle lettere immaginarie mentre a teatro – ultimo tempio di civiltà – un gruppo di attori tenta di mettere in scena la tragedia di Edipo. Un romanzo enigmatico e avvincente, una riflessione sul destino dell’umanità avviata alla catastrofe. Ma la storia avrà un esito imprevedibile.

RECENSIONE

Salve amici di LDFO, il libro al centro del commento di oggi non è una nuova uscita, tuttavia, merita di essere conosciuto di più e mi riferisco a “Terrarium”, edito da Voland nel 2015, di Giorgio Manacorda.

Il mondo che l’autore dipinge ha colori sfalsati: rigagnoli neri, cielo tendente al viola o al giallo, alberi le cui chiome sono di malsano blu. Segni incontrovertibili che di salubre lì ci sia ben poco e l’umanità sembra ormai rassegnata a questo triste destino già scritto poiché dei rettili mutanti stanno scorrazzando a piede libero, decimando barbaramente la popolazione.
L’intelaiatura narrativa è improntata sulla forma epistolare; la voce narrante è quella di un attore che si rivolge alla madre morta, ma queste lettere al contempo rappresentano una sorta di diario in cui il protagonista riversa ricordi e sensazioni, episodi di questa quotidianità dove il pericolo è appostato dietro l’angolo.

“Morirà prima il racconto o la vita? Ma intanto vivo, in qualche modo scrivo.”

In secondo piano scorgiamo il tentativo di mettere in scena l’Edipo re di Sofocle da parte di un manipolo di persone che s’improvvisa compagnia teatrale.
Il teatro, infatti, riveste un ruolo centrale. Diventa il placebo per fronteggiare il cataclisma che incombe, il genere umano – pur di percepire una parvenza di normalità – non se la sente ancora di rinunciare a questo vezzo.

Mi sono arrovellata sul perché l’autore avesse scelto proprio questa tragedia. Lui stesso, ad un certo punto, dà una spiegazione ma ci ho visto anche altro. Che Manacorda abbia voluto cogliere analogie tra l’hybris di Edipo e la sua conseguente cecità che collima con quella che affligge la popolazione del suo romanzo di fronte a quest’ecocidio? Sorge spontanea un’altra analogia con la figura di Edipo, da ricercarsi nel rapporto più che amorevole, al limite del morboso, tra il protagonista e la madre.
Il titolo, “Terrarium”, comunemente conosciuto come un ecosistema autonomo in vitro, ci fornisce un indizio sul genere letterario: fantascienza filo-distopica mista a fiction speculativa. Eppure, sarebbe riduttivo ascriverlo solo al genere fantascientifico, lo scrittore si avvale della cornice apocalittica per mettere in luce temi umanissimi: l’ineluttabilità, la paura e il dolore della morte, profonda vulnerabilità data dall’incertezza per il futuro, la fragilità delle relazioni sia tra genitori e figli sia di coppia e molto altro.
Sono pagine cariche di un lirismo potente, ma che per merito della forma epistolare risultano immediate e non affaticano la cadenza di lettura.

Il modo di raccontare è di una audacia che taglia il fiato, pieno di sottigliezze che ad una prima lettura potrebbero sfuggire, ciò nonostante, trapela una delicatezza senza pari non solo nella scelta delle parole ma anche nella loro combinazione.
Crescono, pagina dopo pagina, fino all’epilogo imprevedibile un forte perturbamento e un disagio alienante.
Un romanzo vertiginoso in cui sono categorici la solitudine, la durezza e il dramma per comporre le parti più fallaci della condizione umana, il risultato è un’opera spietata e toccante.

La mia realtà somiglia a una malattia. È il dolore diventato mondo. Una malattia si cura, un dolore si placa, ma un mondo?

Elisa R

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