Recensione I testamenti di Margaret Atwood

TRAMA DE I TESTAMENTI

Il nostro tempo insieme sta per cominciare, mio lettore. Può darsi che vedrai queste pagine come un fraglie scrigno da aprire con la massima cura. Può darsi che le strapperai o le brucerai: con le parole accade spesso“.
Hai fra le mani un’arma pericolosa, caricata con i segreti di tre donne di Gilead. Stanno rischiando la vita per te. Per tutti noi.
Prima di entrare nel loro mondo, forse vorrai armarti anche di questi pensieri:
“La conoscenza è potere”.
“La Storia non si ripete, ma fa rima con sé stessa”.

RECENSIONE DE I TESTAMENTI

Salve distopici, non so se steste aspettando o meno il mio commento ma vi lascio lo stesso le mie umilissime impressioni.
Partiamo dal presupposto che questo libro non era così necessario e non aggiunge chissà quale compiutezza al primo; tuttavia, per una questione di “curiosità da lettrice compulsiva” ero più che decisa a leggerlo.
Un sequel che arriva dopo trentaquattro anni (2019) dall’uscita del famosissimo distopico “Il racconto dell’ancella” (1985), tornato alla ribalta grazie alla fortunata serie tv che ha sviluppato e approfondito ancora di più l’universo deleterio di Gilead. E già qui ho drizzato le antenne, perché il sospetto che si trattasse di una manovra pubblicitaria mi ha sfiorata più volte.

I testamenti si colloca quindici anni dopo il destino in sospeso di Difred. Ci troviamo sempre all’interno della nazione teocratica di Gilead e il titolo si fa foriero dello stile designato per la narrazione, appunto, testamentario.
Vi svelo fin da subito che una delle tre voci narranti è proprio quella di zia Lydia e anche se le altre due sono rilevanti, e ad un certo punto convergeranno, sembra spettare proprio a lei reggere le sorti della vicenda. Per aggirare il rischio spoiler non menzionerò altro sulla trama.

Dietro quell’apparenza pura e virtuosa, Gilead imputridiva.

Perché il racconto dell’ancella ha riscosso così tanto successo? Forse perché si parla di una donna a cui hanno tolto tutto (incluso la sua identità e il suo nome) per farla diventare una mera incubatrice umana, perché il limite tra distopia e realtà è talmente sottile che sconvolge proprio per la realisticità di un regime così brutale. L’autrice ha ribadito più volte, in alcune interviste, che l’input nella stesura dei suoi romanzi arriva da un episodio analogo presente nella storia dell’umanità ed è palese capire, in questo caso, quale sia stata la sua “fonte d’ispirazione”.
Nei testamenti – complice una scrittura più nitida e dinamica pensata per catturare l’attenzione del lettore – abbiamo modo di osservare i primi istanti dall’instaurazione della repubblica totalitaria di Galaad – che si fonda su dominio maschile e oppressione femminile – risulta evidente il collaborazionismo da parte delle donne nella formazione e accettazione del regime: chi per un moto di fede, chi per paura, chi a causa di un vero e proprio lavaggio del cervello, chi per la serie “se non puoi batterli unisciti a loro”. Addirittura, veniamo a conoscenza dell’aggiunta di una nuova categoria – oltre a quelle che conosciamo già (Zie, Ancelle, Marte, Economogli e Mogli) – all’interno della gerarchia sociale dello Stato Sovrano: le Ragazze Perla, “fondamentali” per gli scopi propagandistici e per raccattare nuove donne.
Margaret Atwood conferma, ancora una volta, la sua straordinaria capacità di saper scandagliare nel profondo la mente dei personaggi, Difred ne era un ottimo esempio e riesce a destreggiarsi altrettanto bene con un triplice punto di vista; ognuna di queste donne aggiungerà un tassello per raccontarci in maniera progressiva ascesa e fallimento di Gilead e come ciò abbia influito in modo diverso sulle loro vite. È tangibile il senso di impotenza di fronte a un assetto politico che sembra detestare le donne e ne abusa come gli è più congeniale. Anche se alcuni ritengono I testamenti un romanzo a sé stante, non riesco a non fare paragoni con il precedente volume: la distribuzione della trama in tre prospettive favorisce la cadenza di lettura e viene dato ampio spazio all’azione, infatti risulta meno claustrofobico e più concitato ma manca quella sorta di sacralità presente nelle memorie di Difred, dove ci si soffermava sull’angosciante destino riservato alle ancelle e dal quale scaturivano inevitabilmente riflessioni sulla società. Non che qui scarseggino gli stimoli di riflessione; eppure, li ho trovati meno incisivi, forse perché ero già al corrente di alcune delle brutture di questa nuova società del decoro e della morale.
Non posso negare però che, a causa di alcune ingenuità a livello di intreccio che scadono nel prevedibile e delle scelte narrative un po’ opinabili – come, ad esempio, la quasi totale assenza di Difred (menzionata sporadiche volte) – non mi ha soddisfatto totalmente. Nel complesso è stata una lettura piacevole, ma di certo non promettente e imprescindibile come pensavo.

Elisa R

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