Recensione: “Cieli d’Avorio” di Carmelo Barbaro

Salve gente distopica.

Parliamo di nuovo di fantascienza, tanto per cambiare, precisamente del romanzo di Carmelo Barbaro intitolato “Cieli d’Avorio”.

Partiamo subito con la trama. Faccio copia e incolla dalla sinossi di Amazon.

“Alla fine, non è poi così male. Starsene in pace ad ascoltare un po’ di musica, di buona musica, badando ai fatti propri ogni tanto ci vuole. Sì, ci vuole proprio. E poi il panorama: spettacolare. Non ci sono nato, anzi, a dir la verità, sono nato quasi agli antipodi, ma mi fa sempre un certo effetto guardare la Terra da quassù. Sono in orbita geostazionaria da un paio d’ore; attendo di attraccare alla base di transito RMQ-01 “Side One”, nota anche come “Butcher’s Bay”, dal nome del suo gestore. Vorrei fare un check-up generale alla nave, specialmente dopo le ultime modifiche e Butcher’s Bay è un posto dove non si fanno troppe domande. Nel frattempo, mi rilasso. E guardo. Come ruota… Com’è blu… Vedo foreste, montagne, deserti. Eppure, continenti interi sono quasi disabitati. L’umanità sta migrando, ci stiamo spostando. A volte penso che vogliamo infliggere noi al resto dell’universo, dato come stiamo riducendo questo Sistema. Divento malinconico, quando ascolto questa canzone di Harvest; specialmente se poi mi cade lo sguardo sulla Luna. Veramente fantastica, tutta la vista. Cieli d’Avorio è un libro di fantascienza classico ma con punte innovative sorprendenti e intriganti.”

Che ve ne pare? Se non si è capito nulla sulla trama è perché questa non è la sinossi, ma in realtà l’incipit del romanzo. Il libro inizia veramente così, parola per parola, a parte l’ultima frase: “Cieli d’Avorio è un libro di fantascienza classico ma con punte innovative sorprendenti e intriganti”.

Be’, quasi.

Fantascienza? Sì, certo. Ho apprezzato i paesaggi e le varie spiegazioni scientifiche, ho apprezzato la conoscenza sull’astronomia dell’autore, ho apprezzato molte cose su questo aspetto. Quello che non ho apprezzato, anzi, che mi ha fatto storcere un po’ di volte il naso è questo: nel romanzo sembra che i pianeti del Sistema Solare siano perennemente allineati; se si parte da Marte e ci si allontana dal Sole, allora per forza di cose il prossimo grande pianeta che vedremo sarà Giove, no? E poi Saturno e così via.

Non è proprio così. Ci si avvicina all’orbita di Giove, che però potrebbe stare anche dall’altra parte del Sistema Solare. Sapete, i pianeti girano: mica restano fermi affinché i personaggi li esplorino uno per uno. Ecco, vista la conoscenza dell’autore sull’argomento, avrei preferito sentire parlare di finestre di lancio e cose simili. Ma forse sto divagando, e della trama non abbiamo ancora parlato.

Il romanzo narra principalmente di Bolt, che viene incaricato da uno sconosciuto di prelevare una capsula criogenica da Marte, per portarla all’estremità del Sistema Solare. Bolt, visto che ormai si trova sul pianeta rosso, decide che per una missione simile (e pericolosa, visto l’enorme anticipo in denaro) può anche provare di non fare da solo come sempre e si cerca un’analista.

Conosciamo così Sear, giovane esperto di informatica e di quant’altro di elettronico serve a una nave. Ecco, il romanzo narra le loro avventure e principalmente di questa missione. Non vi spoilero nulla di più. Ci troviamo in mezzo a una tregua tra il Sistema Solare Interno e quello Esterno, la guerra è alle porte, c’è un clima di pericolo e i personaggi si muoveranno in questo clima.

Passiamo alla narrazione, punto su cui di solito non mi soffermo: ognuno è libero di scrivere nello stile che più gli pare e piace. Però però però… Se l’incipit è in prima persona, capirete che si tratta del punto di vista del protagonista; stesso stile viene assegnato anche a Sear.

Il resto della narrazione è in terza persona onnisciente.

Quello che non mi è piaciuto – ecco perché mi ci voglio soffermare – è che spesso e volentieri sia Bolt che Sear vengono narrati in tutti e due i modi. Capisco la scelta di usare la prima persona per i personaggi principali e la terza per il resto, ma non riesco proprio a capire il motivo per cui i due personaggi principali debbano essere narrati una volta in prima, poi in terza persona, poi di nuovo in prima, poi cambiando punto di vista da Bolt a Sear, poi in terza con Sear e Bolt e così via. Se l’autore ha fatto la scelta di narrare il punto di vista di Sear e di Bolt in prima persona, penso che dovrebbe mantenerlo per tutto il romanzo. Purissima opinione personale, eh!

E, a proposito di personaggi, ecco la mia anche su questo aspetto:

Sì, sono caratterizzati, anche se secondo me in maniera un po’ generica. Sono tutti duri alla fine, tutti tosti – parliamo dei buoni della storia ovviamente – ma al contempo tutti hanno le lacrime che rigano le guance quando si tratta di amicizia, tutti hanno il cuore tenero – perché sono buoni, no?

Non voglio fare il cattivo, ci sono delle particolarità per ogni personaggio – e non sono solo due, ovviamente – e questo l’ho apprezzato. Quello che voglio dire è che non tutti devono reagire con l’occhio lucido se si stringono la mano, per esempio – sì, sto esagerando, ma per rendere l’idea.

Altra punta di cattiveria: mi è piaciuto molto un personaggio, l’avvocato Lefinne, braccio destro dell’antagonista. Il difetto è che senza Lefinne, il romanzo non cambierebbe di molto; questo personaggio è totalmente tagliabile. Peccato, nonostante fosse dalla parte dei cattivi, è stata la presenza che ho amato di più.

Per quanto riguardi gli intrighi e i colpi di scena, sì, ci sono. Forse non così forti come si desiderava, ma va bene. Ogni tanto sono stato stupito dalla trama. Magari approfittando maggiormente di questi elementi forti sarebbe venuto fuori un prodotto migliore.

Finale un po’ in discesa, un po’ scontato. Al di là dei dettagli che possono essere una sorpresa, il risultato è lo stesso: happy end all’americana. E no, non sto spoilerando. Il lettore può capire se finirà male o bene anche dopo la metà del libro, magari senza indovinare i particolari, ma intuendo la direzione verso cui l’autore sta andando.

Messaggio? Non so. C’è il sacrificio per gli amici, l’onore della propria parola, l’onere del proprio dovere e cose simili. Magari qui è colpa mia, ma non sono riuscito ad afferrare un particolare messaggio. Ma forse il libro voleva essere solo intrattenimento, senza nessuna lettura tra le righe.

Mi è piaciuta molto lo sfondo musicale, perennemente presente. Questo sì. Spesso i pezzi ascoltati dai personaggi sono in sintonia con la situazione in cui si trovano. Devo ammettere che alcune canzoni – okay, molte canzoni – le ho dovute andare a cercare, ma qui si tratta semplicemente della mia ignoranza. Ma sì: musica apprezzata.

Facendo le somme però, mi dispiace affermare che il mio giudizio si ferma al centro, tra il bello e il brutto. Come un cinque su una scala da uno a dieci.

Alex Coman

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