Recensione: “Amatka” di Karin Tidbeck.

Trama

Nel mondo che i Pionieri hanno colonizzato valicando un confine di cui si è persa ogni traccia, gli oggetti decadono in una poltiglia tossica se il loro nome non viene scritto e pronunciato con prefissata frequenza. Per evitarne la distruzione, un comitato centrale veglia severamente sulle parole pronunciate dagli abitanti delle colonie, perché la vita in un mondo minacciato dalla disgregazione richiede volontà e disciplina. Vanja, cittadina di Essre, viene inviata dalla sua comune nella gelida colonia di Amatka e troverà ad attenderla i primi fuochi di una rivoluzione sotterranea giocata sulla potenza del linguaggio. Suo malgrado, Vanja dovrà così affrontare le possibilità che si celano dietro il velo di blanda oppressione che assopisce i pensieri e le parole del popolo di Amatka.

Recensione

Vanja inviata dal governo di Essre per una ricerca di mercato si mette in viaggio alla volta della cupa Amatka. Giunta lì si rende conto che la popolazione è sottoposta a rigidi controlli per fermare sul nascere eventuali moti sovversivi. La ragazza decide poi di risiedere in pianta stabile nella cittadina e, a seguito di una sequela di eventi, sarà costretta a mettere in discussione le solide convinzioni su cui si è basata fino a quel momento e, animata da una curiosità che rasenta l’anticonformismo, incomincerà ad indagare comprendendo che l’intera comune è imperniata su un mendace fondamento.
Il popolo di Amatka vive in una sorta di muta acquiescenza ed estrema remissività, ma la realtà diventa di giorno in giorno più dura. C’è tensione nell’aria e, nascosto ad attendere il momento propizio, qualcuno non è ancora disposto a gettare la spugna.


Il romanzo condivide con Hunger Games la suddivisione del paese in zone circoscritte, nella trilogia della Collins si trattava di distretti in questo caso, invece, ci confrontiamo con le colonie; in particolare con due di esse: qualche vago riferimento a Essre, da considerarsi la capitale di questo nuovo mondo, e Amatka, l’ambientazione all’interno della quale si muoverà la nostra giovane Vanja e gli altri comprimari. Un paesaggio grigio, dove a predominare è la smorta gradazione del cemento delle abitazioni accostato al clima asfittico e giallognolo della tundra.
L’arco narrativo si estende in un lasso di tempo di circa quattro settimane dove seguiamo le azioni e il filo dei pensieri della protagonista.
Se nel celeberrimo “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury avevamo carpito l’importanza della cultura, ma in particolare dei libri perché permettono varie manifestazioni del pensiero autonomo, nel romanzo di Karin Tidbeck è la parola in sé ad essere il perno su cui verte l’intero intreccio. Guai a sgarrare nella nomenclatura degli oggetti perché le parole forgiano e plasmano, ma le parole hanno anche il terribile potere di distruggere.
Potremmo racchiudere l’essenza del romanzo in questo brano estrapolato direttamente dal testo:

Le parole devono essere tenute sotto controllo. Un cittadino che non controlla le proprie parole potrebbe distruggere la propria comune.

Tidbeck conduce il lettore per mano in un percorso dietro alla patina effimera delle parole e del loro archetipo significato, tra le righe semina un incitamento al non restare con le mani in mano, è necessario fare la propria parte e combattere per la libertà individuale e non solo: abbiamo gli strumenti necessari per plasmare la società in cui viviamo e spetta sempre a noi insistere per cambiarla in meglio. Un romanzo intelligente che sicuramente invita alla riflessione, tuttavia qualche sbavatura c’è. In alcuni brani è abbastanza prevedibile, in altri invece sarebbe stato fondamentale un maggior approfondimento. Un punto decisamente a suo favore è che l’autrice non ci indica nulla dell’universo fittizio che ha creato, non c’è dato sapere di un prima né un dopo l’avvento dei Pionieri. Sbroglia la sua storia evitando di ricorrere a superflui orpelli stilistici; ci mostra quel presente, liberando dal giogo la sua protagonista, saremo noi a dover tirare le somme di quanto letto.
E proprio quando ci apprestiamo all’epilogo – in un memorabile rovesciamento delle parti – che vi è l’ultima possibilità di scostare il velo di Maya, un finale sospeso lascia presagire un moto rivoluzionario che, con l’impetuosità di uno tsunami, è oramai inarrestabile.

Elisa R

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