Recensione “Scritture della catastrofe: istruzioni e ragguagli per un viaggio nelle distopie”

Esiste un versante della letteratura fantastica particolarmente cupo e crudele, che immagina la possibilità di un mondo ancor peggiore di quello reale: disegnando il quadro senza speranza di società dominate da regimi violentemente oppressivi e totalmente alienanti oppure toccando l’estremo limite di un’umanità ridotta a pochi superstiti, in fuga da spaventose catastrofi. Questo genere, chiamato “distopia” in opposizione alle rosee prefigurazioni dell’utopia, è oggi frequentatissimo, sia nella letteratura sia nel cinema e nei fumetti. Si tratta insomma di un paesaggio inevitabile del nostro immaginario collettivo attuale, che evidentemente non riesce a pensare altro futuro che non sia la “fine del mondo”. Ma che significato ha la distopia? È un tentativo di indovinare come andranno veramente le cose? È un ammonimento per convincerci a cambiare rotta? È uno sberleffo alla faccia del genere umano che piange lacrime di coccodrillo dopo aver inquinato e distrutto un intero pianeta? O è un modo, invece, per saturarci con le immagini “finte” del disastro, così da abituarci a sopportare l’orrore di quelle vere? Questo libro esplora approfonditamente il continente distopia, ne fa la storia e ne ipotizza le principali tipologie, cercando di applicare gli strumenti della critica letteraria e dell’analisi del testo alle rappresentazioni dell’incubo collettivo, siano esse scritture di spessore artistico o fiction di consumo.

RECENSIONE

L’interesse per la distopia sta producendo un’ondata di riflessioni teoriche molto interessanti, ne ho dato conto con la mia recensione del libro di Marco Malvestio, Raccontare la fine del mondo. In questo caso si tratta di una ripresa, perché la prima edizione del saggio di Muzzioli, Scritture della catastrofe risale al 2007, ma quella che appare oggi, aggiornata, è sicuramente l’opera più ricca e più articolata intorno a questo tema.

Si tratta infatti di una accuratissima e informatissima indagine sulle diverse regioni del territorio di distopia.
Lo scrittore si chiede e ci chiede perché abbiamo bisogno della distopia. La prima risposta è che ciò dipende dal fatto che abbiamo la percezione della fine e della irreversibilità di molti processi che caratterizzano la nostra vita quotidiana.


La fine della guerra fredda e della contrapposizione tra Capitalismo e Comunismo invece di ridurre la sensazione di pericolo, l’hanno sicuramente acuita, perché da una parte o dall’altra non appare più una diversa possibilità. La fine di ogni utopia percorribile, o immaginabile ha fatto sì che l’unico modo di pensare al futuro sia pensare alla fine del mondo.
D’altra parte la caratteristica di ogni utopia è proprio quella di puntare a un equilibrio perfetto, a uno stato di perfezione che segnerebbe la fine della storia, ma la realtà è che la storia non si ferma, che ogni tentativo, ogni esperimento, come quello sovietico o quello cinese, per fare degli esempi, sono falliti.

La storia va avanti e cancella inesorabilmente ogni utopia.
Allora ci resta solo da pensar la fine, senza speranza. Ma la letteratura reagisce in modo molto complesso a questa situazione epocale, dando vita a modelli diversi.
Il modello esorcistico ad esempio, che consiste nell’evocare proprio ciò che temiamo per scongiurarlo. Il nemico allora diventa l’Impero del Male e si punta sempre al trionfo del Bene, magari dopo un salvataggio in extremis di un supereroe con superpoteri. Oppure il modello dello smascheramento che si oppone appunto al “va tutto bene”, al lieto fine. Perché la distopia situandosi nel futuro pone l’esigenza morale di opporsi al disastro di cui il presente è anticipazione e annuncio.
D’altra parte le scritture distopiche possono avere un valore profetico e l’artista può assumere il ruolo dello “scrittore sulla coffa” come dice Zamjatin cioè di colui che stando più in alto vede prima degli altri l’arrivo di un’altra nave o di una pericolosa tempesta.

Ci sono due grandi filoni della distopia che si possono individuare: quello totalitario (del potere esibito, o del potere nascosto), e quello catastrofico con tutta una ricchissima serie di sottogeneri, il tema dell’ultimo uomo, quello degli zombie, quello della pandemia. Oggi vediamo bene come lo scenario distopico si stia spostando dal pericolo atomico, che caratterizzava la letteratura degli anni ’50 e ’60, ai disastri ambientali e alla distopie epidemiche.
La distopia storicamente si innesta sullo sviluppo della letteratura fantastica nel momento in cui si afferma l’idea del progresso come una sorta di voce critica, di dubbio più o meno esplicito rispetto alle “magnifiche sorti e progressive”. La tecnica, presupposto del progresso, può danneggiarci? La classe subalterna e sfruttata può fare la rivoluzione? Se il progresso è l’idea della borghesia vincente, gli alieni mostruosi sono forse il travestimento dei minacciosi proletari?
Forse il punto di partenza di questo nuovo punto di vista è l’opera di Wells La macchina del tempo (1895), seguito da RUR di Čapek (1921): un po’ alla volta il mito del progresso si trasforma in quello della crisi infinita.
Sicuramente tra le distopie la più radicale è quella che immagina la fine del mondo: dal Leopardi delle Operette, a Mary Shelley a J. London, a Olaf Stapledon Gli ultimi uomini (1930).

Muzzioli segue il filo di innumerevoli opere, e nella seconda parte ci regala una ricca serie di approfondite analisi testuali su romanzi degli ultimi cinquant’anni, cioè quelli che meglio possono fornirci indicazioni rispetto allo stato attuale del mondo e alle sue prospettive. Singolare però, in questo caso, è la scelta che comprende insieme a grandi classici anche opere che normalmente non entrano nel canone della letteratura di genere: Volponi, Il pianeta irritabile, Rushdie, Grimus, Costazar, Apocalisse in Solentiname, Vonnegut, Galpagos, Grass, La ratta, Saramago, Cecità, Kourouma, Aspettando il voto delle bestie selvagge, Atwood, L’ultimo degli uomini.

Permettetemi di chiudere questa rapida presentazione di un libro davvero ricchissimo, con una citazione che vorrei far mia: “la distopia, per un verso o per un altro, si muove criticamente rispetto al presente, mostrandone il male futuro; e allora, se il suo patto con il lettore è quello di essere a sua volta critico, non rimane a noi altro che esercitarla, la critica, a tutto campo, comprese anche le immaginazioni del peggio.” (p.12)

STEFANO ZAMPIERI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *