Recensione L’eterno Adamo di Jules e Michel Verne


Pubblicato postumo nel 1910, L’eterno Adamo è un racconto scritto negli ultimi anni di vita di Verne e rimaneggiato dal figlio Michel. Lo leggo in una deliziosa edizione mignon dell’editore napoletano Coppola.


TRAMA DE L’ETERNO ADAMO


Sofr il Sapiente in un fantastico impero d’Oriente dopo aver elogiato i grandi progressi della civiltà nel campo delle invenzioni ma anche della conoscenza sente la necessità di chiarire l’ultimo mistero, quello della origine dell’uomo e della meta del suo cammino. Il Sapiente per trovare la risposta a queste domande supreme avvia delle ricerche nel campo dei fossili che lo portano a sostenere come falsa e insostenibile la tesi popolare di una umanità creata da una volontà superiore: Adamo ed Eva. Durante gli scavi trova un manoscritto in una lingua sconosciuta. Riesce a decifrarlo: è il diario di un ricco francese vissuto molto tempo prima il quale racconta di quando giunse il cataclisma che fece sprofondare il Messico nel mare. Ed egli si trovò, in compagnia di pochi amici, in un isolotto circondato dal mare.


Raccolti da una nave poco prima che l’isolotto a sua volta scompaia scoprono che il continente americano ha subito la stessa sorte del Messico. Spinti dal vento per otto mesi cominciano a cadere nella disperazione: non ci sono più terre emerse, tutto il pianeta è coperto dal mare e non ci sono altri sopravvissuti. Ma i viveri a bordo della nave scarseggiano. La fine anche per loro è ormai vicina quando trovano la sola terra emersa in mezzo all’Atlantico. Qui possono rifocillarsi di tartarughe e molluschi ma l’isola è totalmente arida: non ci sono piante, nemmeno un filo d’erba perché si tratta di una terra emersa dal fondo dell’oceano a causa del cataclisma, una specie di Atlantide al contrario. Qui restano e cominciano a ricreare la vita attraverso un processo di “terraformazione”. E pensano a quel che potrà essere il mondo futuro.


“Mi sembra di vederli questi uomini del futuro, dimentichi del linguaggio articolato, l’intelligenza spenta, il corpo ricoperto da peli ruvidi, errare in questo deserto.”
Per evitare questo pericolo di involuzione della specie umana il narratore dedicherà gli ultimi anni della sua vita a mettere su carta tutte le sue conoscenze per la società del futuro.
È dunque vero che è esistita un’umanità civilizzata prima di quella precedente, che in qualche modo è sopravvissuta all’estinzione. Questo è il Destino “dell’eterno ricominciare delle cose”.


Non sappiamo quanto del racconto sia realmente ascrivibile a Jules Verne piuttosto che al figlio, di certo però qui l’ottimismo positivista tipico di Verne è superato attraverso questa immaginazione di una ciclica rovina dell’umanità. Ormai nel ‘900 l’ideale ottocentesco delle umane sorti e progressive, il processo lineare di sviluppo della civiltà umana, la macchina inesorabile del progresso, è solo un lontano ricordo.


STEFANO ZAMPIERI

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