RECENSIONE (+ intervista): La tuffatrice di Julia Von Lucadou

Buongiorno amici di Leggere Distopico. Oggi vi segnaliamo una novità che, per ora, troverete solo in versione ebook, ma che approderà anche in libreria una volta passato questo momento difficile. Stiamo parlando de “La Tuffatrice” di Julia Von Lucadou, edito da Carbonio Editore. Io ho avuto il piacere di leggerlo e di intervistare l’autrice, quindi proseguite con la lettura dell’articolo per sapere cosa ne penso.

Esce oggi in versione ebook (prossimamente in cartaceo)
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Trama:

Riva Karnovsky è una campionessa di base jumping: si lancia dai grattacieli, dando prova di coraggio in una disciplina che richiede forza, autocontrollo e sprezzo del pericolo. È la numero uno, una superstar con milioni di follower e sponsor che le offrono contratti pubblicitari miliardari. Ma un giorno Riva decide di ritirarsi: non si allena più, non rilascia interviste, non posta più nulla. Passa le giornate seduta sul pavimento del suo lussuoso attico, chiusa in un ostinato silenzio. Per rimotivarla viene chiamata una giovane psicologa, Hitomi Yoshida: a lei il compito di sorvegliare Riva giorno e notte attraverso telecamere nascoste in ogni angolo della casa. Finché Hitomi si accorge di essere lei stessa una prigioniera… Con una narrazione gelida e asciutta Julia von Lucadou dà vita a un futuro patinato, iper-efficiente, altamente competitivo e commercializzato, descritto con inquietante precisione: una realtà virtuale asettica tanto agghiacciante quanto possibile.

Recensione:

Riva è un’atleta che si è conquistata una certa fama, grazie alle sue imprese nello sport estremo che pratica: si lancia infatti nel vuoto da elevati grattacieli, incurante del pericolo. Le sue performance lasciano il pubblico col fiato sospeso, gli occhi sognanti e in corpo una scarica di adrenalina.

Immagini le sensazioni che deve provare quella donna: cadere nell’abisso sapendo di potersi risollevare, senza paura di schiantarsi e morire, gustando la vittoria contro la gravità e la consapevolezza di non dover più temere la morte. Che sensazione, l’assenza di gravità. Che sensazione sublime.

Da un giorno all’altro, però, Riva decide di ritirarsi dalle scene rintanandosi nella sua abitazione. È preda di un mutismo selettivo, respinge ogni forma di contatto e rifiuta categoricamente di sottoporsi agli allenamenti.
Tuttavia, scegliendo di intraprendere la strada del mondo dello spettacolo, Riva non può più esercitare alcun controllo sul suo diritto alla privacy. Sono i suoi finanziatori, infatti, a vigilare su parametri psicologici ed efficienza fisica. Sono loro, inoltre, a elargire i mezzi necessari per farla vivere nell’agiatezza. Per questo, il suo ritiro dalle scene non è certo ben visto, tanto dagli sponsor – il cui capitale è a rischio -, quanto dai fan, che si dilettano nelle più disparate congetture.
Viene convocata una psicologa del lavoro, Hitomi Yoshida. Servendosi di telecamere nascoste disseminate per la casa e di una vasta gamma di strumenti d’analisi dei dati, la dottoressa spia e annota ogni singolo comportamento di Riva, con unico scopo: carpire la causa scatenante di questa inaspettata apatia e “risvegliarla” dal torpore, nell’interesse degli sponsor.

Riva, per come esiste adesso, è un tutt’uno con il suo appartamento: un’esile figura bianca e immobile. Una sagoma più che una persona.

Ma, come disse il filosofo Friedrich Wilhelm Nietzsche, “se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Sarà così anche per Hitomi: la giovane donna ha sempre lasciato che fossero le circostanze a scegliere per lei. Questo atteggiamento, durante il lavoro con Riva, la condurrà in una viscosa ragnatela di ansie e turbamenti che la riguardano in prima persona e che si inaspriranno ulteriormente.
Con raffinato acume e cinismo, Julia Von Lucadou tratteggia una distopia in cui rigorosa sorveglianza e omologazione sono i tratti caratterizzanti di una società futuristica prospera, ma terribile. Una realtà fondata su una felicità artificiale che richiama in particolare “Il Mondo nuovo” di Aldous Huxley, ma corredato di sottili e puntuali riferimenti all’ “hic et nunc” (qui e ora).

Un’elevata capacità di adattamento era essenziale per avere successo nella vita, ci dicevano sempre.

Nel romanzo, infatti, le innovazioni tecnologiche impongono di essere costantemente connessi. Scandiscono e controllano tanto le condizioni psicofisiche, quanto le giornate delle persone, nell’incessante ricerca dell’approvazione del prossimo e del perfezionamento dell’individuo.
Si respira a pieni polmoni quell’esigenza di protagonismo a ogni costo. Nel mondo di Riva e Hitomi, l’essere lodati compiace l’ego, ma non solo: è infatti la qualità del lavoro che garantisce all’individuo vantaggi e privilegi. E se questa viene a mancare si può perdere tutto.

Aver coronato il sogno di un futuro migliore è certamente un conseguimento notevole e lodevole, per la società descritta dal libro. Ma a quale prezzo? E, soprattutto, ne è davvero valsa la pena? Gli affetti e l’amore della famiglia si sgretolano sotto il peso del successo e della tecnologia. Quindi cosa resta?
L’atmosfera creata dalla scrittrice è ricercata, ma, allo stesso tempo, claustrofobica: il worldbuilding viene appena accennato e lasciato perlopiù alla nostra immaginazione. Questo per porre in primo piano le vite di Riva e Hitomi. L’autrice ha saputo delineare, con pochi e mirati tocchi, personalità profonde e speculari, mettendo in risalto luci ed ombre di questi due complessi personaggi femminili.
Questo romanzo è da considerarsi mera finzione o vuole essere un campanello d’allarme? Abbiamo ancora qualche possibilità di preservare la nostra umanità, in un mondo dove la tecnologia diventa sempre più invasiva e preponderante?
Le vicende di queste giovani donne fanno riflettere su quanto siamo spaventosamente vicini a questa realtà artificiale, in cui le simpatie che nascono sui social si riducono a dialoghi sterili di glaciale inumanità.
La mia personalissima interpretazione è che dietro a questo romanzo ci sia sì un monito, un mettere in discussione le poche certezze che abbiamo sulla percezione del mondo che ci circonda. Questo per portarne alla luce le crepe e le mancanze, certo, ma è anche un invito a cogliere l’intimo significato delle nostre emozioni e ad apprezzare appieno i nostri affetti.

Elisa R

Sono super entusiasmata nel presentarvi la mia intervista ad un’autrice straniera: Julia von Lucadou. Colgo l’occasione per ringraziare lo staff della Carbonio Editore per avermi dato questa possibilità e Delos Veronesi per il ruolo fondamentale di traduttore. Conosciamola meglio e scopriamo qualche dettaglio in più sulla sua opera prima “La tuffatrice” che ho letto e del quale potrete trovare la recensione qui sopra.

Fotografia scattata da Maria Ursprung

Prima di passare all’intervista vera e propria, eccovi qualche accenno biografico: Julia von Lucadou è nata a Heidelberg nel 1982 e ha conseguito un dottorato in Scienze Cinematografiche. Ha lavorato come assistente alla regia e redattrice televisiva; vive tra la Svizzera, New York e Colonia. Con “La tuffatrice” (“Die Hochhauspringerin“) sigla il suo esordio letterario, candidato al Klaus Michael Kuhne Prize for Best Debut 2018 e allo Schweizer Buchpreis 2018. Ha vinto lo Schweizer Literaturpreis 2019.

1) Per rompere il ghiaccio parlaci un po’ di te. Chi è Julia Von Lucadou e com’è nata la tua passione per la scrittura?

Raccontare delle storie è sempre stata la mia forma di comunicazione preferita. Mio padre mi ha raccontato che (sin da) quando avevo due anni, prima di imparare a scrivere, avevo l’abitudine di dettargli le mie storie. Ho sempre voluto diventare una scrittrice. Adoro l’arte della finzione e la uso per distanziarmi dalla realtà per poter riflettere su di essa, e empatizzare con chi è diverso da me, come primo passo per un dialogo.


2) Svelaci qualche retroscena sul tuo lavoro da scrittrice. Nel caso del romanzo “La tuffatrice”, cosa ha alimentato questa tua idea, così complessa e brillante?

La Tuffatrice è nata da una mia crisi di identità. Prima lavoravo per il cinema e la televisione, un ambiente molto competitivo, e talvolta aspro, dove veniva chiesto di lavorare 12 ore al giorno, inclusi weekend. All’inizio ero entusiasta del mio lavoro, amavo la parte creativa, ma dopo alcuni anni ho iniziato a capire che tutte quelle ore, la mancanza di soddisfazioni e di un giusto compenso mi stavano segnando. Mi sono resa conto di esse caduta in una spirale di perfezionismo in cui nulla di quello che facevo era mai abbastanza buono, e avevo sempre troppo da fare per potermi riposare. Se provavo a lamentarmi il mio capo mi diceva che c’erano centinaia di giovani che morivano dalla voglia di fare il mio lavoro, e aveva ragione. Quando ho capito di non essere felice e che mi stavo sfruttando da sola in nome di un ideologia capitalista di produttività e ottimizzazione, mi sono licenziata e ho iniziato a scrivere la Tuffatrice. Era un modo per capire quello che era successo a me, e alle altre persone che mi circondavano che, essenzialmente, vivevano per il loro lavoro e per lo status che ne derivava.


3) Come hai organizzato il tuo lavoro? Ci sono stati dei momenti specifici della giornata in cui ti sei messa a scrivere o hai seguito l’ispirazione del momento?

Ho imparato che esistono tante routine di scrittura quanti sono gli scrittori, ma credo che alla fine si possano separare tra disciplinati e caotici. Ammiro molto gli scrittori disciplinati ma io tendo a essere dal lato dei caotici. Se programmo troppo perdo tutto il divertimento, e mi sembra di fare un classico lavoro da ufficio. Cerco di mantenere un equilibrio tra la mia vita di tutti i giorni e i momenti di ispirazione. In pratica sono una scrittrice tranquilla.


4) Ci sono scrittori o scrittrici che ti hanno particolarmente influenzata?

Amo i libri e ho migliaia di scrittori preferiti. Adoro i racconti d’amore, credo che sia un genere troppo sottovalutato. Da adolescente il mio primo grande amore letterario è stato il racconto di Raymond Carver che è riuscito fare un’istantanea della vita, grezza fino al punto di trascinarti al centro della sua essenza.

Per la tuffatrice mi sono lasciata ispirare dall’autrice canadese Margaret Atwood. Adoro le sue speculative fiction, come The Handmaid’s Tale che ho trovato intelligente e avvincente.


5) Hai scelto volontariamente il genere distopico oppure solo andando avanti nella stesura del libro ti sei accorta che la storia stava prendendo questa direzione?

Non volevo scrivere un romanzo distopico, ho solo sviluppato quello che sentivo. Credo che la sensazione di distopia sia nata dal mio stesso disagio per alcuni tratti della nostra società. Sono sempre stata una fan dell’estremizzazione artistica, credo che renda le storie più interessanti. L’estremizzazione di un pensiero aiuta a vedere le cose più chiaramente, a capirle meglio. E’ stato molto divertente immaginare un mondo un un po’ più estremizzato del nostro ma con molte cose in comune.

6) Un elemento che mi ha molto colpito della tua scrittura è il minimalismo. Niente orpelli stilistici né allegorie di libera interpretazione. Eppure le emozioni della protagonista riescono ugualmente ad emergere con chiarezza. È stato difficile far conciliare questi due aspetti così in antitesi?

Il mio modo di scrivere è abbastanza naturale, è il modo in cui Hitomi, la mia protagonista, parla e ragiona, ritrae il suo senso di funzionalità e di perfezionismo. Per lei il linguaggio è uno strumento, non ha emozioni, non è poetico. Ovviamente non è possibile eliminare completamente le emozioni e la poesia dal linguaggio umano, ed è li che vediamo alcune tracce del suo vero io, di ciò che la muove. Mentre scrivevo mi sono dovuta arrendere al linguaggio di Hitomi, trovavo affascinante che questa emozione continuasse a crescere tanto più lei cercava di sopprimerla.

7) Hai una precisione quasi chirurgica nell’indicare precisi aspetti del linguaggio del corpo e della comunicazione non verbale, anche nei rapporti interpersonali. Prendo come esempio le dinamiche dell’appuntamento tra Hitomi e Royce Hung oppure gli incontri con Master. Puoi dirci se c’è dietro uno studio specifico, magari di stampo psicoanalitico o antropologico?

Ho la psicologia nel sangue. Entrambi i miei genitori sono psicologi. Sono cresciuta in mezzo a libri di psicologia e trovo immensamente affascinante la psiche umana. Si tratta di una delle basi della scrittura, serve per capire le emozioni e le relazioni umane, ti aiuta a empatizzare con le persone diverse da te.

8) Hai provato a inserire qualcosa della tua personalità e del tuo vissuto, nella caratterizzazione di Riva e Hitomi? O magari hai preso spunto da qualcuno in particolare?

Credo di aver in parte risposto a questa domanda al punto numero 2 🙂 C’è molto di me in Riva e in Hitomi. Come Hitomi a un certo punto ero parte di un sistema e dei suoi valori di perfezionismo, e come Riva sono uscita da quel mondo e ho cercato di trovare un nuovo modo di vivere. Nonostante questo entrambe i personaggi sono anche molto diversi da me, sono indipendenti da me e hanno una loro personalità e qualche volta mentre scrivevo hanno fatto cose diverse da quelle che mi aspettavo.

9) Ti propongo un quesito che ho inserito all’interno della mia recensione al tuo romanzo. Secondo te, abbiamo ancora qualche possibilità di preservare la nostra umanità, in un mondo dove la tecnologia diventa sempre più preponderante?

Credo che la vera risposta sia nell’umanità e non nella tecnologia. La tecnologia non è un problema, non crea un ambiente disumano, siamo noi a farlo. E’ nostra responsabilità come esseri umani interrogarci sul modo in cui noi usiamo la tecnologia per controllare e manipolare, per discriminare o implementare la disumanizzazione. La tecnologia può darci una grande mano, si possono creare nuove forme d’arte, corregge i nostri errori e può democratizzare la società. Ma può essere anche usata per aumentare il controllo dei governi o delle corporazioni. Noi possiamo preservare la nostra umanità se ci rendiamo conto del lavoro della privacy, della bellezza della nostra imperfezione e della nostra responsabilità sociale reciproca. 

10) Al momento hai altri romanzi in cantiere? Che programmi hai per il prossimo futuro?

Sto lavorando a un nuovo romanzo e ad alcuni racconti. E spero di poter continuare a scrivere anche in futuro. Non mi piace parlare molto dei miei progetti finché non li ho finiti, adoro farmi sorprendere da loro.

Articolo di Elisa Raimondi

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