Recensione. “La macchina del tempo” di H. G. Wells

H. G. Wells LA MACCHINA DEL TEMPO 1895
Scritto nel 1895, in una fase di creatività prodigiosa che nel giro di tre anni diede vita a capolavori come L’isola del dottor Moreau (1896), L’uomo invisibile (1897) e La guerra dei mondi (1897), il romanzo La macchina del tempo di H.G. Wells rappresenta uno dei pilastri della letteratura distopica. L’autore infatti riesce a sviluppare una previsione sconvolgente relativamente al futuro della società umana.

LA TRAMA

Il protagonista, chiamato semplicemente Viaggiatore del Tempo, è una singolare figura a metà strada tra lo scienziato e il ricco e ingegnoso dilettante. Egli mette a punto una macchina con la quale è possibile viaggiare nel futuro. Raggiunge infatti l’anno 802.701 ma riesce anche a tornare e a raccontare ciò che ha visto e ciò che ha vissuto. Il romanzo dapprima narrato da un amico, si sviluppa poi per la maggior parte nella forma di un lungo monologo attraverso il quale scopriamo una umanità futura spaccata in due parti, i pallidi Eloj, esseri senza forze e senza volontà, che vivono una vita apparentemente felice e priva di emozioni, ma in realtà sono schiavi inconsapevoli dei Morlock, i bruti cui è demandato invece il compito del lavoro, ma in condizioni subumane.

L’INCIPIT

“Il Viaggiatore nel Tempo (così chiameremo il nostro protagonista), stava spiegandoci un’astrusa teoria. I suoi occhi grigi luminosi brillavano e il viso, abitualmente pallido, era rosso e animato. Il fuoco ardeva allegramente e, dalle lampade a incandescenza in gigli d’argento, s’irradiava una tenue luce, riflettendosi nelle bolle che rapide apparivano e scomparivano nei nostri bicchieri. Le poltrone, suo brevetto, parevano abbracciarci e accarezzarci più che subirci, e vi era quella molle atmosfera del dopo pranzo,durante la quale i pensieri vagano piacevolmente, liberi da ogni vincolo. Ed egli ci parlava così, liberamente, sottolineando i punti salienti con gesti del suo indice magro, mentre noi, pigramente seduti, ammiravamo l’ardore con cui sosteneva un nuovo paradosso (così lo giudicavamo) e la sua eloquenza.”

LA RECENSIONE

La narrazione di Wells è distopica e critica, egli insieme a Huxley si pone agli antipodi dell’ottimismo ottocentesco, rappresentato da un filosofo evoluzionista come Herbert Spencer che ben interpreta la cultura positivista del XIX secolo, quella delle magnifiche sorti e progressive, quella della certezza nella capacità della scienza di condurre l’umanità verso il sole dell’avvenire. Al contrario Wells vede il buio in fondo al tunnel e l’immagine finale del suo viaggio nel futuro lascia ancor oggi sgomenti: “non vidi muoversi nulla, né in terra né un cielo né in mare. Solo la melma verde delle rocce testimoniava che la vita non si era estinta del tutto.”
La dialettica mortale tra Eloj e Morlock a sua volta può essere intesa come anticipazione profetica e visionaria insieme di una umanità che si affievolisce perché addomesticata dal confort delle macchine, e una asservita e abbruttita, anche fisicamente, anche nella incapacità di parlare, dal lavoro meccanico, due forme diverse della stessa malattia, l’asservimento alla tecnica, la trasformazione dell’uomo da dominatore delle macchine a strumento di esse. Una prefigurazione di quella perdita progressiva di umanità che un tempo era chiamata alienazione.
La visione di Wells è impietosa e contiene in sè un formidabile accento critico perché i segni del futuro devastante sono già presenti nella sua epoca ma ancor più nella nostra. Per chi vuole entrare nella dimensione della distopia una lettura imprescindibile.

Stefano Zampieri

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