Recensione “Un’ambigua utopia – Rivista di critica marx/z/iana”

Singolare e interessante la storia di questa rivista che ebbe qualche momento di celebrità negli anni ’70 del secolo scorso, e che ora da un paio di numeri sembra voler riprendere il cammino da dove era stato interrotto senza far mistero del suo marchio politico, né dell’interesse esclusivo nei confronti della fantascienza.


Abbiamo fra le mani il n.11 dell’ottobre 2021. Opportunamente la rivista, che ha l’andatura di un saggio, si apre con un dialogo tra due generazioni, rappresentate da Giuliano Spagnul e Alberto Di Monte, nel quale appare molto bene il passaggio da una fase, gli anni ’70, in cui ancora la fantascienza poteva rappresentare un movimento di speranza, un futuro come promessa e, dall’altra parte, una fase, quella attuale, in cui l’ineluttabilità del futuro minaccioso appare chiara alle nuove generazioni. Anche certi tentativi di recuperare un futuro positivo, come il Solarpunk, sembrano dimostrare una certa volontà di spostare l’attenzione dalla realtà della crisi climatica in atto attualmente.
Ma, allora, qual è la funzione della fantascienza oggi? Forse quella di rappresentare “la realtà soggiacente al nostro agire quotidiano.” Quindi più che ripetere modelli e forme stereotipate, la fantascienza dovrebbe essere capace di ritrovare il proprio significato. Non può essere dominata da un sentimento di nostalgia ma deve “ridisegnare nuovi giochi nel campo del possibile”.

Fa seguito a questo ricco e stimolante dibattito una ricerca a largo raggio di Danilo Marzorati sulle più celebri opere di natura distopica, sia nel campo della cinematografia e delle serie televisive che in quello della narrativa. Un saggio tuttavia con il quale mi sono trovato in completo disaccordo. Vi si squadernano infatti tutte le tesi del complottismo di sinistra nel quale si confonde con facilità il senso della realtà con il senso della narrazione, ricondotta alla banale formula del “laboratorio per sperimentale l’uso della paura e del senso di colpa come modo di creazione del consenso”, cioè per “alimentare nelle masse il bisogno di sicurezza e per abituare all’isolamento sociale.” Tesi già ampiamente sfruttata nel mondo no-vax, no-pass, no-mask, ma che a sua volta in realtà rappresenta una straordinaria deriva distopica: quella della radicale incapacità di lettura del reale, una negazione dell’evidenza sanitaria e scientifica. Un disagio imperdonabile soprattutto per chi subisce ancora il fascino del marxismo.

Ma il fascicolo è arricchito anche da tre racconti piuttosto articolati, di Nico Gallo, di Bianca Garavelli e di Alice Shekldon e c’è anche un saggio originale di Laura Coci sulla lingua dei totalitarismi e della distopia: vi si sostiene giustamente che la lingua crea mondi, lo stesso Thomas More dovette inventare una parola, “utopia”, per dire la cosa nuova che stava elaborando. D’altra parte i totalitarismi del ‘900 hanno creato anch’essi di una sorta di neo-lingua per fondare il proprio potere e costruire il consenso. Non a caso il fascismo si è servito di tre grandi logoteti come D’Annunzio, Marinetti e Ezra Pound. Così lo stesso è stato per il nazismo, come testimoniato dalle insuperabili analisi di Victor Klemperer.
Un altro articolo pone a confronto la fantascienza di Primo Levi (spesso ingiustamente trascurata) e quella di Alice Sheldon alias James Tiptree Jr. C’è poi una recensione al saggio di Elisabetta Di Minico, Il futuro in bilico, del quale parlerò anch’io fra qualche settimana su “Leggere Distopico”, una graphic novel di Marco Abate e Fabio Barrtolini e un articolo di Romina Braggion sul Solarpunk.
Insomma c’è un sacco di materiale, da leggere e da pensare. E comunque la sola esistenza di questo numero della rivista dimostra che il distopico è vivo, è coinvolgente, e ormai rappresenta una realtà importante nel campo della fantascienza, forse quello che meglio si può adattare ai rivolgimenti e alle contorsioni del nostro tempo difficile.

STEFANO ZAMPIERI

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